“E risuona il mio barbarico Yawp sopra i tetti del mondo”, disse la locomotiva.
Inutile cercare: questo verso non si trova in “Ad una locomotiva d’inverno” di Walt Whitman. Però è come se tutti i versi del poema puntino verso questa conclusione, a questo verso che fa parte di una più celebre poesia di Whitman (“Il canto di me stesso”).
La locomotiva è la forza prorompente della seconda metà dell’800: non c’è paragone con fabbriche, acciaierie, battelli a vapore e altre manifestazioni della rivoluzione industriale. La locomotiva è l’immagine di tutto questo, la rappresentante del progresso tecnologico, l’espressione della potenza -intesa proprio, semplificando un po’ i termini, come energia per unità di tempo- prodotta in quantità tali come mai prima nella storia; ma, soprattutto, sotto il controllo diretto dell’uomo, rompendo il legame con i ritmi stagionali e l’imprevedibilità della natura che fino ad allora erano stati un limite invalicabile per le attività umane.
E’ vedendo una locomotiva in corsa che chiunque si può entusiasmare, non certo guardando una fabbrica o un’acciaieria che all’esterno producono solo fumi e odori. E’ seguendo una locomotiva in testa al suo treno che si può sognare, mentre star ad osservare i movimenti ripetitivi dei torni, delle presse e di tutte le altre macchine che si trovano in una fabbrica è più facile che produca noia. La locomotiva per il treno, il treno per la ferrovia, la ferrovia per il progresso: queste le sineddochi che collegano la locomotiva al progresso.
E all’epoca sono chiaramente comprese ed utilizzate, sia in positivo -Whitman e Carducci- che in negativo -Dickinson-.
La locomotiva insomma non poteva sfuggire a Whitman, questo incontenibile e vulcanico cantore di quanto di positivo c’è nell’umanità ed in ogni singola persona; solo che quando scrive questa poesia si pone un problema: come presentare la locomotiva e come elogiarla senza farne un freddo monumento? Non è persona per le soluzioni facili, venti strofe in terzine o alessandrini con rime banali ed è fatta, visto che fu lui a dire “Ai giovani letterati voglio dare tre bei consigli: Primo, non scrivete poesia; secondo idem; terzo idem.”. E mantiene la parola data: scrive versi liberi con termini arcaici, causando un’apparente contraddizione -lui che delle contraddizioni non aveva paura- che dà alle parole un’insolita forza, si rivolge alla locomotiva dandole del tu -thee come soggetto, thy come possessivo- perché questa è sì una lode ed anche un’invocazione, ma è pure un confronto da pari a pari: io e te. Emily Dickinson fa tutta un’altra scelta, rifugiandosi in un impersonale e neutro “it” che mantiene le distanze e consente di gettare un occhio critico sul progresso.
La descrizione della locomotiva offerta al lettore è un altro colpo di genio: inizia solo alla terza strofa e parlando delle caratteristiche acustiche (il ritmo pari, il battito convulsivo); solo alla quarta riga si arriva alla descrizione visiva con una scomposizione dei volumi che se non è cubista, beh, poco ci manca.
Dalla presentazione delle singole parti Whitman inizia a costruire la locomotiva, perché tutto sommato parla di qualcosa che ha ancora il sapore del nuovo, sul quale si possono fare molte scelte estetiche, senza dover essere provocativi.
Avesse scritto il suo poema settanta anni dopo, probabilmente non sarebbe stato più vero e le sue scelte sarebbero state diverse. O, forse, lo stesso poema scritto settant’anni dopo avrebbe avuto un significato profondamente diverso -direbbe Borges-.
Cerchiamo di capire cosa sarebbe accaduto: più o meno settant’anni dopo “To a locomotive in winter”, Pierre Schaeffer pubblica “Étude aux chemins de fer”, brano sonoro che segna la nascita della musica concreta, assemblando registrazioni sonore fatte in una stazione. Tutti, ascoltando questo brano, dicono istintivamente: “è un treno”, “è una locomotiva”, “è il fischio del capostazone”. E cadono nella provocazione di Schaeffer che lavora con immagini sonore talmente comuni che la loro identificazione con un luogo o con un oggetto è così veloce da non lasciare il tempo di sentirli come suoni, come invece avrebbe fatto un contemporaneo di Bach che nulla sapeva di treni, locomotive, stazioni. Questo signore borghese o nobile con parrucca si sarebbe probabilmente alzato dalla sedia e, disgustato, sarebbe uscito dalla sala all’udire la composizione di Schaeffer, ma non avrebbe mai pensato ad un treno! Fosse stato uno del popolo sarebbe scappato a gambe levate in cerca di un esorcista perché c’è uno che ha una scatola con un diavolo (uno? decine e decine di diavoli!) dentro che fa rumori terrificanti. Però nemmeno lui avrebbe pensato ad una locomotiva.
La prospettiva di Schaeffer è l’opposto di quella di Whitman: Schaeffer ci fa vedere una fotografia di una locomotiva (un quadro per l’uomo settecentesco, ugualmente incomprensibile quanto la registrazione) e ci chiede di dimenticare l’oggetto completo, cercando di soffermarsi sui suoi elementi costitutivi: colori, forme, luci e poi ruote, bielle, caldaia, fino alla ricostruzione dell’immagine completa. Vera scatola di montaggio con tutte le parti e libretto di istruzioni. Whitman invece ci sottopone dei colori, delle forme e degli oggetti elementari che noi comporremo come locomotiva: lui nel testo non lo fa, tanto che la parola “locomotiva” non appare nel poema, se non nel suo titolo. Non ci da le istruzioni per il montaggio perché parla a persone per le quali la ferrovia è certamente un elemento di novità, ma è già ben nota e facilmente identificabile dalle sue componenti, senza passare per provocazioni novecentesche.
Così facendo elenca lamiere, longheroni, bielle, lampade, pennacchi di vapore e nuvole di fumo, camino, balestre, valvole, ruote -descritte dallo sfarfallio dei raggi in rotazione- e infine le carrozze: la locomotiva c’è tutta e facilmente riconoscibile anche per noi ormai troppo abituati a vederla nella sua interezza.
L’ambientazione è invernale, anche se il testo dedica poche parole alla stagione e al clima, perché è nella stagione più difficile per l’uomo e gli animali -solo pochi anni prima l’inverno bloccava i trasporti e isolava molte località- che maggiormente risaltano la potenza e l’invincibilità della locomotiva che probabilmente non a caso entra in scena al tramonto della giornata d’inverno.
Ed ora Whitman fa qualcosa in più, qualcosa di inatteso e spettacolare: ha invocato e descritto la locomotiva, ne ha narrato le sue qualità eroiche e ora la chiama a sostituirsi a lui nella narrazione, a servire lei la musa come poetessa.
La locomotiva non è più un oggetto esterno da lodare e glorificare -nelle intenzioni di Whitman probabilmente non lo è mai stato-, ma è un soggetto autonomo, capace di espressività propria, che può stare su un piano di parità con l’uomo.
E la locomotiva gli parla e gli canta il suo poema; è Whitman che ce lo dice, anche se non ci riferisce le parole, ma ci spiega come lo fa: di giorno con la sua campana (siamo negli USA e le locomotive devono essere dotate di una campana) e con il suo fischio, con i suoi fanali di notte. E il canto della locomotiva è di una libertà estrema, non sottoposto ad alcuna legge (lawless, lo definisce Whitman), potente e coraggioso, ma questo da una prospettiva umana perché per lei, per la locomotiva, tutto corrisponde ad una sua legge completa e vincolante.
E un Whitman molto riflessivo quello che scrive questi versi, perché capisce dal poema che gli sta cantando la locomotiva che quanto c’è di nuovo arriva senza che lo si possa arrestare e scardina l’ordine esistente, ma non per questo lo si può definire privo di legge: il nuovo si presenta con una sua legge, ma siamo noi che non riusciamo ancora a vederla. Whitman sembra volerci dire che, pur con tutta la sua carica positiva, il progresso non deve essere accettato acriticamente, ma ascoltato, capito e valutato nelle sue possibilità come nei suoi rischi, dato “che ci porta avanti quasi tutti quanti” e che c’è chi “è sottovento e non vuol sentir l’odore di questo motore”, come canterà quasi un secolo dopo Fabrizio De André, più vicino come sensibilità ad Emily Dickinson.
Questa riflessione non impedisce però a Whitman di accettare quanto gli dice la locomotiva e di affrontare con convinzione la sfida che lei gli pone davanti. Lei così convincente con il suo fischio lanciato nel cielo libero, felice e forte.
Lei alla quale si adattano questi altri bellissimi versi sempre di Whitman “…che vi è di nuovo in tutto questo,/oh me, oh vita !/Risposta/Che tu sei qui,…”
Walt Whitman (1819–1892). Leaves of Grass.
To a Locomotive in Winter
THEE for my recitative!
Thee in the driving storm, even as now—the snow—the winter-day declining;
Thee in thy panoply, thy measured dual throbbing, and thy beat convulsive;
Thy black cylindric body, golden brass, and silvery steel;
Thy ponderous side-bars, parallel and connecting rods, gyrating, shuttling at thy sides;
Thy metrical, now swelling pant and roar—now tapering in the distance;
Thy great protruding head-light, fix’d in front;
Thy long, pale, floating vapor-pennants, tinged with delicate purple;
The dense and murky clouds out-belching from thy smoke-stack;
Thy knitted frame—thy springs and valves—the tremulous twinkle of thy wheels;
Thy train of cars behind, obedient, merrily-following,
Through gale or calm, now swift, now slack, yet steadily careering:
Type of the modern! emblem of motion and power! pulse of the continent!
For once, come serve the Muse, and merge in verse, even as here I see thee,
With storm, and buffeting gusts of wind, and falling snow;
By day, thy warning, ringing bell to sound its notes,
By night, thy silent signal lamps to swing.
Fierce-throated beauty!
Roll through my chant, with all thy lawless music! thy swinging lamps at night;
Thy piercing, madly-whistled laughter! thy echoes, rumbling like an earthquake, rousing all!
Law of thyself complete, thine own track firmly holding;
(No sweetness debonair of tearful harp or glib piano thine,)
Thy trills of shrieks by rocks and hills return’d,
Launch’d o’er the prairies wide—across the lakes,
To the free skies, unpent, and glad, and strong.
A una locomotiva d’inverno
A TE per il mio recitato!
A te nella tempesta furiosa, anche adesso-il bianco spesso, della neve-l’invernale-giorno al declino;
A te nella tua veste d’acciao, il tuo misurato battito duale, e il tuo ritmo convulsivo;
Il tuo nero corpo cilindrico, dorato bronzo, e argentato acciaio;
Le tue potenti barre laterali, bielle parallele e unificanti, rotanti, oscillanti ai tuoi fianchi;
Il tuo metrico, ora aumentante respiro e ruggito- ora sfuggente nella distanza;
La tua grande protundente luce principale, là sulla fronte;
I tuo lunghi, pallidi, fluttuanti pennacchi di vapore, tinti di delicato viola;
Le dense e oscure nuvole eruttate dalla tua ciminiera;
Il tuo ricamato telaio-le tue sospensioni e valvole-lo sfarfallante luccichio delle tue ruote;
Il tuo treno di carrozze dietro, obbediente, allegramente-seguente;
Attraverso la tormenta o calma di vento, ora veloce, ora lenta, comunque costantemente di gran carriera;
Prototipo del moderno! emblema di movimento e potenza! pulsazione del continente!
Per una volta, vieni e sii a servizio della Musa, e traduci in versi, proprio mentre Io qui Ti vedo;
Con tempesta, e picchiettanti soffi di vento, e neve cadente;
Di giorno, il tuo avviso, campana sonante per suonare le proprie note,
Di notte, i tuoi silenziosi segnali luminosi da oscillare.
Bellezza dal collo fiero!
Scorri attraverso il mio campo, con tutta la tua sfrenata musica! le tue luci oscillanti di notte;
Il tuo perforante, pazzamente-fischiato riso! le tue eco, rombanti come un terremoto, eccitando il tutto!
Completa legge di Te stessa, il Tuo proprio binario saldamente trattenuto;
(Nessuna dolcezza cortese di arpa lacrimosa o di delicato pianoforte la tua,)
I tuoi trilli di strilli da rocce e colline rimbalzati,
Scagliati oltre le praterie e attraverso i laghi,
Verso i tuoi cieli liberi, non repressi, e felici, e forti.