Mostra di modellismo alla Fiera di S.Andrea 2011

Portogruaro 20 novembre 2011

Anche quest’anno il Fermodel Club ha partecipato alla giornata dedicata alle Associazioni ed ai Bambini con una mostra di modellismo ferroviario nella Sala delle Colonne del Municipio.
La massiccia presenza del pubblico ha premiato il lavoro fatto da tutto il gruppo: il grande plastico modulare che riproduce tratti di linea tra Portogruaro e Fossalta, il “plastico dei ragazzi” dei soci più giovani, il diorama dello scalo fluviale di S. Agnese negli anni ’30. Molto interessanti le esposizioni tematiche, quest’anno collegate alle celebrazioni dei 150 anni di unità d’Italia: “Passaggi ferroviari” con brani letterari e citazioni della ferrovia negli autori italiani ed una “Storia delle ferrovie italiane nei 150 anni di unità”.

Particolarmente gratificante l’approfondita visita da parte del Sindaco Antonio Bertoncello e degli Assessori Anna Maria Foschi e Andrea Costa i quali, come molti altri attenti visitatori, hanno potuto apprezzare il carattere culturale nello studio, nella ricostruzione storica, nella ricerca letteraria e nella composizione dei convogli.

Mostra di modellismo ferroviario

Anche quest’anno, nella Sala delle Colonne presso il Municipio del Comune di Portogruaro, avrà luogo la mostra di modellismo ferrovierio organizzata dalla nostra associazione.

Saranno presenti plastici, diorami ed una esposizione statica a tema, che nella ricorrenza di quest’anno sarà intitolata “150 anni d’Italia: in viaggio con treni e trenini“.

Vi aspettiamo quindi domenica 20 novembre 2011, presso la Sala delle Colonne (piano terra) del Municipio di Portogruaro, in piazza della Repubblica dalle 10:00 alle 18:30.

Il treno nelle Dolomiti 2011

Longarone, domenica 17 aprile 2011

Si è svolta domenica 17 aprile, per la terza volta nei padiglioni della Fiera di Longarone, la manifestazione “Il treno nelle Dolomiti“, alla quale il nostro gruppo ha partecipato per la prima volta.
La manifestazione, nelle varie edizioni, si afferma sempre più come uno dei più importanti appuntamenti in tema di modellismo ferroviario, con la partecipazione di numerose associazioni, con esposizione di plastici, diorami e circuito di vapore vivo, oltre ad una ricca presentazione di documenti, fotografie e cartoline su argomenti ferroviari. A completare il quadro, anche una mostra di auto d’epoca e dimostrazioni di attività sportive.
Nel complesso, una manifestazione molto ben riuscita, premiata da un notevole afflusso di pubblico, grazie anche ad un’ottima organizzazione.

Per quanto riguarda la nostra partecipazione, va sottolineata soprattutto la collaborazione con il Gruppo Fermodellistico Centoporte di Bassano del Grappa, con il quale abbiamo potuto realizzare il più esteso impianto modulare della manifestazione. Ciò è stato possibile grazie alla costruzione di un “modulo scudo” che permettesse di unire meccanicamente ed elettricamente i due diversi sistemi modulari in uso dalle due associazioni. Nel plastico allestito hanno potuto circolare composizioni realistiche riproducenti convogli italiani ed internazionali di varie epoche: l’espresso Gondoliere, l’intercity Vesuvio, gli eurocity Canaletto e Tiepolo, il treno diretto “Mozart” Vienna-Parigi, un ETR450 e molti altri convogli passeggeri e merci, alcuni dei quali ripresi da video e foto.

Una giornata di grande divertimento per il pubblico e di grande soddisfazione per tutti noi, che molto probabilmente si ripeterà il prossimo anno, in occasione di un importante anniversario per la ferrovia a Longarone.

De Chirico… e la linea a scartamento nel regno metafisico di Argo

Giorgio o Evaristo. Mettetevi comodi, perché la trama si fa interessante e il viaggio spazia, tra la metafisica e il surrealismo, l’antica Grecia e l’ingegneria ferroviaria. Roma, 1938, olio su tela, “L’enigma del ritorno”, collezione privata. Eppure…non l’opera mi suggella a tentazione, ma quel piccolo trenino nero a vapore che, a destra di chi guarda la tela, sbuffa incurante dell’arte e del soggetto.

Il cesello critico mi porta a leggere e scomodare ipotesi, più o meno tendenziose, che si esprimono in spiegazioni interpretative, del perché e del percome, il pittore ha reso, affettuosamente trascendenti, determinati elementi della sua iconografia. In questo caso, tutto è, forse,riconducibile ad una affettività universale: il trenino nero sbuffante è il simbolo commemorativo del suo papà, immortalato dal pittore, in diverse tele! A noi, viaggiatori in carrozza, piace pensare anche alla metafora del nostro inconfutabile destino, di passeggeri occasionali sulle rotaie della vita. Sento quel trenino nero, l’elemento pulsante di quelle piazze silenziose e suggestive, dove il tempo non è tempo, dove s’intrecciano futuro e passato, guardati “poieticamente” al presente.

Giorgio De Chirico, era figlio dell’ingegnere ferroviario, non meno illustre, Evaristo De Chirico e fu proprio lui ad insegnargli i primi passi con la matita. Giorgio amava e ammirava molto il padre e il dolore per la perdita si accompagnerà alla sua poesia pittorica, proprio nella parola chiave di tutta la poietica metafisica: silenzio.

Di fronte all’arte, all’amore, all’intensità di una presenza, alla vita e alla morte, all’essere e al non essere, necessita un pieno di silenzio.

Grecia, 1888, a Volos, cittadina affacciata sul mar Egeo, tra Atene e Salonicco, Gemma Cervetto partorisce un genio del pennello, mentre, l’amato siculo marito completa i nove ponti ferroviari, perfetti e surrealistici nella geografia di una regione che accoccolò la cultura classica, di tutta la nostra prosopopea umanistica. I miti, gli dei e i demoni, sono chiamati in livrea, per un futuro ferroviario perfetto, nell’impegno, nella capacità e nell’arte e, i costruttori, con una suggestiva linea a scartamento nella regione del monte Pelion, terra dei Centauri, hanno garantito un perfetto progetto di integrazione, tra linea ferroviaria e ambiente. Il pensiero metafisico del pittore, non poteva nascere tra le chiuse di una piatta campagna, o attraverso un’accidentale traversata montuosa: occorreva la spinta inconscia di una terra culla della classicità e, De Chirico, Giorgio, ha reso su tela un impulso creativo, cresciuto nella mitologia e nel surrealismo, tra i progetti ingegneristici e l’architettura. Benedetti Apollo e Diana e Minerva, i quali giurarono di non turbare la pace, necessaria, per l’ascesa dell’opera ferroviaria e la maturazione di un emblematico pittore che avrebbe risuscitato “…il sol corpo possente dei Greci antichi… dando onor a quegli antichi Iloti che furon illustri schiavi…” (Oliver Goldsmith). I progetti furono approvati dalla legge degli Efori, potenti magistrati e sostenuti dalle donne spartane, che, pare, in tutto il mondo, erano le uniche che sapevano reggere gli uomini a loro senno! Sinceramente questa citazione non ricordo dove l’ho letta, ma non me la sono inventata, in questo gioco metafisico! Essiri cogghipezzi… Che c’è, perdo tempo, signori De Chirico?

Oh, potessi consultare l’oracolo di Delfo! Il figlio o il padre? Chi era il metafisico? Entrambi, mi risponderebbe, ribelli ed allergici al pensiero annoiato, romantici e poeti, legati al filo che Giorgio guidava tra le nuvole, aiutato da papà, bambino maestro di volo dell’aquilone. “Mio padre era un uomo leale, buono, intelligente e anche coraggioso… un siciliano, galantuomo d’altri tempi.” Scriveva Giorgio ripensando al padre.

La bontà nei grandi, la forza del pensiero che respira di umiltà, per dare spessore alle opere che restano suggellate nella storia, la storia anche dei treni, delle ferrovie, insieme alle persone, miscugli chimicofisici!

Giorgio De Chirico incontrò Picasso e rimase folgorato davanti alla pittura dello spagnolo, scoprì un mondo “nuovo e sconosciuto”, ma se Pablo Picasso era fermo tra l’apparenza e il significato dell’oggetto, Giorgio De Chirico andò oltre nella ricerca surrealistica: aveva nel sangue un padre ingegnere, filosofo e pensatore dell’oggettivo, che nell’incarico dato dalla società greca, per la realizzazione di quella singolare ferrovia, gli aveva elargito eredità di bellezza e potenza, simboli del volere costruttivo umano. Ma anche la dignità di avere nel sangue la signorilità delle origini siciliane. “Ogni lignu avi u so fumo… ogni uomo ha il suo carattere”. L’opposto, il contrario, il diverso e l’identico… potenza e possibilità, ricavabile per astrazione… teoria metafisica per l’applicazione ingegneristica ottimale sul territorio, o per estrarre, nel non silenzio, il concetto di silenzio e imprimerlo sulla tela, forgiando un carattere.

Tra la mitologia dell’antica Grecia, correva come un treno, è il caso di dirlo, nella metafora dell’arte che interpreta la realtà, arricchendola di uno sguardo in più, quello dell’anima. Le rovine archeologiche, i cavalli e i cavalieri, le ninfe e i castelli, il mare e le piazze silenziose, sono ammorbiditi dalla visione surrealistica di De Chirico, portato al pensiero divergente da un padre che “dipingeva” tratte reali di ferrata, rispettando il decoro di un paesaggio greco, quasi mistico e, solo con uno spirito cavalleresco, poteva renderle pratiche al quotidiano, mantenendo il ferro e le rotaie leggere: filosofia pratica aristotelica!

Nella pittura di Giorgio De Chirico, prendono vita imponenti figure mitologiche, come “Perseo con il cavallo” o “Dafne sorridente”, ma anche “Le tre Grazie, Ninfe presso una sorgente”, in quell’eterno ritorno teorizzato da Nietzsche, deragliatore della noia pittorica del seicento, dove non si viaggiava e non si esplorava, fino ad arrivare al nuovo pensiero filosofico metafisico, che aprirà un binario a scartamento multiplo, per suggestioni surrealistiche.

L’ingegner Evaristo era il direttore generale delle ferrovie della Tessaglia e azionando una trazione a vapore, con lo stesso talento che, nel figlio Giorgio, diverrà arte rappresentativa, disegnava e realizzava la via del ferro per i locotender francesi Decauville e Weidknech, quelli belghe, prodotte da Tubize e Haine St Pierre, per arrivare ad una singolare strategia tedesca che inviava due trattori diesel, di costruzione Schoma, camuffati da locomotive a vapore!

Stupisce anche la storia della ferrovia che, qui, è intessuta di filosofia, dove venire a contatto con l’oggetto, treno, pensandolo, rende intellegibile l’oggetto del pensiero!

Fatto sta’ che a Volos, si concretizza un trittico a scartamento: 600 mm della ferrovia, 1.000 mm della Volos-Kalambaka, dal 1999 a scartamento normale, 1.435 mm della Volos-Larissa a scartamento metrico fino al 1960.

La linea ferroviaria diventò e resta, il filo di una collana di perle, dove i preziosi, sono le colorate località e le chiese bizantine, accoccolate lungo la costa dell’Egeo, collegate dai chiacchiericci di biella, sotto la protezione dell’Olimpo, di binario in binario, da simpatici e sbuffanti trenini a vapore. Piccola ferrovia nata tra la geometria e l’essenzialità dell’ingegner Evaristo,accompagnato silenziosamente dall’occhio attento dei miti classici, dove la Greciaoffriva la forza inconscia dei suoi Centauri, alle mani operose dei costruttori, preoccupati per le difficoltà orografiche del territorio, sul quale vincevano lentamente nell’avanzata, realizzando ponti e viadotti. Il moto produce la successione ed è causato dall’azione: il risultato non è “moto immobile”, ma corsa sui binari!

E il treno fumoso, oggi, sta per riprendere a risalire, faticosamente, viziando i turisti, tra curve e controcurve, fino alla “grotta del Centauro”, dove, altero e siculo, sta fiero il ponte metallico “De Chirico”. Qui è fiaba e surrealismo, in un panorama che si conquista nella fatica della locomotiva, ora cigolante sulla piattaforma, per girarsi e riprendere la discesa, un viaggio all’indietro nel tempo, nel tracciato ferroviario tra i più preziosi e metafisici al mondo, dove, partire o ripartire dalla stazione di Milies è, una carezza suggestiva dei paesaggi che, in terra di Grecia, ci parlano gemelli alla nostra Italia. Noi, con loro, tra i più metafisici di un tempo storico, questo, che sa di surrealismo, dove è necessario recuperare un po’ d’entusiasmo, da quegli antichi spartani che avevano riposto, con re Licurgo, l’amor di Patria in cima a tutte le altre passioni e nelle parole dell’ateniese Pittaco, il bisogno che le cariche sian poste in mano a uomini virtuosi. “Vidiri ‘a carta mala pigghiata”… e questa ve la traducete! Senza riferimento, metafisico, alcuno!

Sissi la fresa TBM, Santa Barbara e la dottoressa Irene!

Rieccomi a parlare di ingegneria e volontà, guardando dai finestrini di un Cisalpino che mi porta sul ponte di Stalvedro, dove i viadotti si intrecciano in spettacolari paesaggi montani e il cuore sussulta, dimenticando per un attimo Alptransit e Trenitalia, per essere solo un puntino tra i massicci invalicabili delle Alpi Svizzere… e la storia prende forma, dove l’uomo non si arrende e la montagna si lascia “lavorare”.
Era il 1882, la Svizzera si affacciava alla Germania e all’Italia, perforando il San Gottardo e tra le mani dei minatori elvetici, si stringevano altre mani oltre l’invalicabile. L’Italia allora fu grande protagonista, con l’impegno economico della città di Genova, contribuendo alla realizzazione di quello che è chiamato il Corridoio 24, attraverso il quale il Mediterraneo si “allaccia” al freddo Mare del Nord. Perforare una montagna è caparbietà, è aprire frontiere di comunicazione e collegamenti internazionali che danno e daranno in modo sostanziale, nuova vita alla circolazione di uomini e merci nel Centroeuropa.
L’AlpTransit ha sfidato il Gottardo e segue con orgoglio i campi base per la realizzazione del traforo ferroviario più lungo del mondo, superando quello sottomarino di Seikan in Giappone, con i suoi 53 chilometri, e solleverà il traffico stradale per collegare Zurigo con Milano. Noi guardiamo a una volontà che si concretizzerà nel 2017 con 57 chilometri di tunnel, attraverso il quale sfrecceranno treni a 250 km/orari!
Un secolo fa si definì il sogno, ma oggi è tecnologia ferroviaria, architettura e ingegneria, di fronte alla quale sorride intimidito anche Mario Botta, l’illustre architetto svizzero e vorremmo essere tra quei minatori, essere uno di loro per sentire nell’anima il sapore della fatica, quella degli uomini e delle loro mani, quando affidano la vita agli ingegneri e al cielo. Le perforatrici sono violente con la montagna e tra Faldo e Sedrun si sono accanite con millenni di roccia, impegnando i geologi che hanno cercato e studiato il passato remoto del nostro pianeta, collaborando fianco a fianco con chi lavora verso il futuro prossimo, dando onore a quel primo piccone che, il 4 novembre 1999, diede il colpo iniziale al progetto. Da allora le “camere”di lavoro, come si chiamano in gergo i luoghi di perforazione e vita dei minatori, sono diventate 460. E pane e mutui e rette scolastiche e pianti per i morti, i feriti e le sconfitte in galleria. Già, anche questo è il volto del San Gottardo, silenzioso sotto il casco, gli occhiali, le cuffie e le tute giallo-arancio, come raggi di sole nelle tenebre del sottosuolo, ma anche pacche sulle spalle per ogni tratto in avanti verso la meta.
“Ci sono momenti di commozione quando vengono letti i nomi dei minatori caduti durante i lavori. Poi l’applauso scrosciante, quando il minatore Hubert Bär passa “dall’altra parte” con la statua di Santa Barbara.” Mi racconta Roberto che è stato alla conferenza tenuta a Genova, sull’impresa ingegneristica del momento.
Santa Barbara è la protettrice dei minatori. Altri minatori lo hanno seguito, sulle note della marcia trionfale dell’Aida, mostrando le foto dei colleghi scomparsi, poi hanno alzato le bandiere, simbolo dell’internazionalità delle squadre al lavoro: Svizzera, Austria, Italia, Germania… I minatori italiani esorcizzano il buio della galleria, intonando “Nel blu dipinto di blu”. Scavare una montagna può essere “volare nel cielo infinito dei sogni”, si legge da un appunto preso.
Mio nonno era anche minatore e con la sua anima di giornalista, voglio pensarlo là, matita e blocco a quadretti in mano, salutare alle 14, 17 minuti e 49 secondi, del 15 ottobre 2010, l’ultimo diaframma di roccia che cedeva alla perforatrice. Ed era un montanaro, uno vero, di quelli che hanno il coraggio di dire no o sì, senza barare la vita dura di chi scava sotto terra e nelle profondità dell’etica umana.
Sapete come hanno chiamato la fresa TBM che ha fatto “sbucare” i minatori al di là del Gottardo?
Sissi, come l’imperatrice ribelle che, con caparbia fermezza, ha scavato nei cuori del popolo austriaco ed è riuscita, con un’ amnistia a favore dell’Ungheria, a toglie lo stato di assedio e unire i due paesi! Nella storia ha lasciato solchi di compassione che hanno dato coraggio a imprese di unità ben più difficili da realizzare, in termini di convivenza tra popoli e ha “aperto” un tunnel di confronto e condivisione politica e sociale. Mi piace pensare che la scelta del nome abbia uno spessore di romantica storicità, in quei minatori che hanno pianto di emozione e di gioia, all’ultima fatica delle loro braccia e della loro perforatrice Sissi, per giungere dall’altra parte dell’imponente San Gottardo. Anche il medico responsabile, a capo del team di galleria, era una donna, Irene Kunz, la “dottoressa” che ha lavorato per la salute e la sicurezza dei minatori, insieme a geologi e ingegneri, piangendo con loro per chi è rimasto sotto la roccia, ammirando e credendo nella forza del lavoro di squadra, quando l’uomo non antepone il suo “io” per un “noi” che diventa volontà sull’improponibile e vittoria sull’imprevedibile. Nei primi anni della mia infanzia, quando vivevo con i nonni a Cave del Predil, spiavo i minatori, come strani esseri un po’ gnomi e un po’ folletti, mentre entravano e uscivano dalla terra, in quelle gallerie fredde e buie; il nonno mi diceva che andava con loro, a rendere in sicurezza i cancelli dell’inferno, per non permettere al diavolo di salire tra noi a vedere il cielo. E si pregava Santa Barbara. Allora, nella mia mente, i minatori erano eroi che lavoravano per la “mia” tranquillità di bambina con troppa fantasia e oggi, sono eroi di una modernità che sfida i sedimenti geologici del nostro sistema montuoso, al fine di rendere l’ economia e i nostri confini, sempre meno invalicabili. “Si dice che la Svizzera non sa guardare avanti, ma reagisce solo agli avvenimenti che la chiamano all’azione… AlpTransit realizza, invece, un progetto epocale per il futuro e dimostra che gli elvetici sanno adattare impegni e scelte ai cambiamenti economici sociali e, non da meno, ecologici…”, mi dice ancora Roberto. La Svizzera, con il traforo del San Gottardo, supera il suo isolamento e conferma la sua anima ad alta precisione, con la più grande impresa del 21° secolo!E l’Italia? Sottovoce vi confido che alcuni fondamentali lavori non sono neppure iniziati, però a Luino (VA), città confine con il Canton Ticino (CH), passerà un terzo del trasporto merci di AlpTransit verso Milano e ho visto cantieri di lavoro per l’adeguamento della ferrovia, raccordo importante del traffico merci, già nel passato. L’Italia non deve rischiare di ritardare l’impresa di collegamento internazionale e vorrei sperare che non saremo, come troppo spesso accade, in coda al fanalino, fermi in qualche binario morto, disattenti alla corsa di una Europa accanita e lanciata su chilometri di ferrata, per uscire dalla grande crisi economica di questo tempo. Che sarà dunque del traffico ferroviario in Italia? Saremo spettatori dell’esplosione, sapendo che Alptransit prevede, oltre al San Gottardo, la perforazione della galleria del Monte Ceneri, circa 15 chilometri, con il nodo di Camorino che collegherà Lugano a Bellinzona, città confine con il nostro Lago Maggiore e più in là, la galleria del Loetschberg, sulla direttrice del Sempione, incrementando il traffico passeggeri, ma soprattutto merci. Coraggio popolo di navigatori e naviganti, incrociamoci alla volontà politica del governo svizzero, per gli accordi sulle ripercussioni di tutto il sistema dei trasporti e accettiamo, per dato, che il futuro correrà su rotaie, non gomma! Il collegamento sarà basato sulla collaborazione e le capacità di risposta, delle linee che collegano la ferrovia transalpina svizzera alla rete di capacità… e velocità… italiana! Linee di collegamento che dovranno essere potenziate e riorganizzate da Trenitalia per decongestionare il nodo ferroviario milanese e così giù giù, fino alle direttrici Milano, Torino e Bologna , poi Verona e chissà per quali futuri altri incroci distazione, qui, in quel Veneto attento e preoccupato, per l’alta velocità che, forse, cambierà per sempre la geografia dei nostri litorali. Che si fa? Ci si tira su le maniche e si entra dignitosamente in un progetto che ha esaurito il tempo delle polemiche e deve attivare risorse d’impegno e attenzione alla sicurezza degli uomini, evitando prosaicità e qualunquismo: non danno la “michetta” a nessuno. Dunque, geografia europea alla mano e non perdiamo il treno, AlpTransit non aspetta e non ritarda!

Mark Twain… cannibalismo in treno

…nel tender c’era una buona provvista di legna: questa era la nostra unica consolazione… Per tutta la giornata ci aggirammo scoraggiati per i vagoni, parlando poco, pensando molto…” (da “Cannibalismo in treno” di Mark Twain).
Se vi dico “Le avventure di Tom Sawyer” ritornate a Mark Twain?
Proprio lui, autore di uno dei più letti e cartonati romanzi di avventure per ragazzi. Viaggiai sul battello di Twain, ma andai a cercare altrove, tra i suoi racconti umoristici: da qualche parte sapevo si parlava di treni. Sono gli anni della guerra civile americana, l’800 e Samuel, in arte Mark, si arruola con i sudisti contro Lincoln, fino al giorno in cui scopre la tragedia di una condizione schiavista, celata da false ideologie patriottiche e parte, vagabondo pensatore, tra l’America e l’Europa; è il periodo in cui affaristi e pionieri, venuti dal Vecchio Continente, scorticano le foreste, per la costruzione di linee ferroviarie, in quello che sarà il West americano.
Twain è pilota di battello a vapore, ma sono gli anni in cui compare il treno, a vapore, incubo degli indiani per quel suo intossicare gli animi con il fumo nero e puzzolente, a cui rispondono con ferocia e lotte crudeli.
Sulle rotaie corrono le illusioni, il  commercio e il sogno economico della Union Pacific Railroad; è l’anno 1868 circa e il fumo di zolfo delle caldaie acceca la vita libera delle ignare tribù indiane:  “Cavallo di Ferro”, graffia le praterie del Nord d’ America, possente come un carrarmato e dotato di un para-bisonti da brivido.
Twain viaggia molto in treno e lo immagino, con il taccuino nero, tracciare i suoi famosi racconti umoristici, in un’epoca che lancia le basi del miraggio americano. Gli incontri sono scorci di uomini potenti o poveri cristi, che nel e del viaggio, fanno la mappa del loro destino. Tra burloni e burlati dalla penna dello scrittore, incrociamo la metafora di una umanità spesso ridicola, proprio dove non ci sarebbe nulla da ridere. Mark scrive per la gente comune e nelle sue caricature, vuole parlare della corruzione, della chiusura mentale dei personaggi che animano il suo spirito giornalistico e sono lo spunto per raccontare la sua visione della società, il pensiero, spesso utopistico, alimentato da momenti di solitudine e depressione, ad altri di ironia quasi grottesca. La fantasia, articolata tra numerose esperienze e incontri,  corre sbuffante e sferragliante come le locomotive della Railroad “…Ma, ahimè, questa volta non potevamo restare dentro il vagone. Così seguitammo a volteggiare dentro e fuori a ritmo di valzer…” (da “Storia dell’invalido” di Mark Twain). Valzer, tra cowboy e damerini inglesi!
Si aggira pungente, a volte cinico, altre commosso, tra le bombette di illustri londinesi e i copricapo di penne di falco e d’aquila dei Sioux, con la disinvoltura del puledro selvaggio che rincorre il desiderio di capire se ha capito a che serve essere imbrigliato. Affascinato e,  lo spero, amico della mitica Calamity Jane! Perché no? Ormai la storia è scritta e la rude Calamity ha sicuramente preso  al lazo, con lazzo, anche il pioniere Twain, il quale, non attratto dall’oro, ma dalla letteratura, vive tra essi, tra indiani, cavalli e  praterie, dove gli indigeni cercano la ragione di vedersi dividere gli spazi liberi delle mandrie di bisonti, a fronte di un demone corazzato che sbuffa con prepotenza. E William Cody, in arte Buffalo Bill? Leggendario cacciatore di bisonti, si dice assunto dalle ferrovie tra il 1868/72, per affiancare la strage che i treni fanno di questi maestosi animali, i quali non indietreggiano di fronte all’ululato delle locomotive corazzate e si lanciano contro esse come fossero maschi di altrettante mandrie da fronteggiare, spesso provocando deragliamenti spettacolari! Lo so perché ero lì! A fianco di Quanah Parker, capo Comanche, con il quale, nei miei voli adolescenziali,  ho creare una buona convivenza tra bianchi e pellerossa!
Storicamente però, quando Twain scrive “Cannibalismo in treno”, è l’anno 1853 e viaggia su un diretto per Chicago, ancora lontano da quanto vi ho raccontato fin d’ora! “…dalla diminuita velocità del treno, capivamo che la locomotiva si apriva un varco con sempre crescente difficoltà… si arrestava in mezzo ai grandi cumuli di neve che, simili a colossali sepolcri, si levavano lungo i binari…” (Mark Twain).
Nella suggestiva avventura, in una notte di tormenta, battuta dalla neve si rompe la biella della locomotiva e l’impotenza del macchinista diventa la tragica realtà di uno sparuto gruppetto di silenziosi… affamati! “…Signori non si può differire oltre. Il tempo stringe! Occorre decidere chi di noi dovrà morire per fornire cibo agli altri…” (Mark Twain).
Qui la faccenda si fa horror e dalla mia galoppante fantasia richiamo in scena Calamity Jane, in groppa al suo Satan, la quale, temuta e rispettata dai Sioux  perché considerata pazza, può portare soccorso agli ignari cannibali in carrozza! Chi sarà mangiato e da chi? In un crescente assurdo confronto di motivazioni plausibili, il racconto si fa intrigante e tra le righe si comincia a percepire l’inganno, il doppio senso e il paradosso di un incubo che solo alla fine ne svela la realtà, comunque comica e tragica allo stesso tempo. Tutto ai margini di una elevata invasione di costume e di rivoluzione economica, per un Paese che sta’ nascendo a fatica, non sempre animato da uomini integri nella moralità.
L’America di Lincoln, non a caso Abramo, che con la voglia di libertà fonda le radici nella liberazione degli schiavi al Sud e porta, nel 1861, alla Guerra di Secessione, ma cancella l’anima indiana, senza capire che questa drammatica epopea rende cannibali i bianchi. Cannibali di culture affascinanti, invasori di territori su cui costruire la ferrovia, le stazioni, togliendo agli Araphao, ai Sioux, ai Crow… la loro terra “di caccia e di libertà”.
La compagnia ferroviaria della Overland Stage, con fatica e perdite considerevoli, cerca di organizzare i collegamenti tra le nascenti cittadine del West, pagando cara la rivoluzione economica di una America del Nord che vuole crescere, al prezzo delle vittime cadute durante i cruenti scontri tra i  bianchi e le tribù indiane. Anche i delicati trattati di pace, non modificano le sofferenze, soprattutto per tribù, fino ad allora pacifiche come gli Cheyenne, costretti a migrare sempre più a nord, alleandosi con i Sioux, contro il “nemico ferrato”. I lavori per le ferrovie sono continuamente interrotti e sabotati dai “gruppi di guerra”, cosicché il cantiere di costruzione di “Cavallo di Ferro”, si muove lento tra sangue e perdite. Storia di treni e pagine di letteratura, anche umoristica, che riescono a darci il profilo di un pensiero disordinato, dove muore la libertà degli indiani e si affaccia, sulle forre aurifere, la cupidigia dei coloni. Storia di un Sud agricolo che, malgrado la forza strategica del Corpo dei Rangers, non regge la grande ascesa industriale del Nord, con i suoi treni blindati, tutti assolutamente a vapore!
…Provai sollievo…avevo ascoltato l’innocuo farneticare di un pazzo…” Scusa Twain, ti riferisci a me?